
È tornata a valle dopo settant’anni la bici della Est del Monviso
Portata in vetta per scommessa negli anni Cinquanta del secolo scorso, poi diventata una presenza famigliare a molti alpinisti impegnati nella salita al Monviso, da qualche giorno è stata restituita al suo legittimo proprietario la bici, o meglio il telaio di quella che un tempo era una bicicletta completa, che si trovava sulla cresta Est del Monviso. L’aveva portata sul Re di Pietra più di settant’anni fa un giovanissimo Clemente Berardo, prima di diventare il celebre “Mente” che ha scritto tante pagine dell’alpinismo saluzzese, in particolare come apprezzata guida alpina e poi come attivissimo membro della delegazione locale del Corpo Nazionale Soccorso Alpino e Speleologico.
Una goliardata che divenne storia
Fu una “ragazzata”, come la definisce oggi con un sorriso lo stesso Berardo. Nei primi anni Cinquanta del secolo scorso, Clemente, classe 1936, e alcuni amici si caricarono quella bicicletta fino in vetta di nascosto da tutti, in un’epoca in cui, come dice lui stesso «respiravamo una leggerezza particolare, dovuta sia all’euforia della nostra giovane età sia alla ritrovata spensieratezza degli anni del dopoguerra. Era una bicicletta già vecchia, che mia madre mi aveva comprato riverniciata da un ciclista di Saluzzo. Ci sembrò divertente portarla sul Monviso e lasciarla lì, per creare stupore e curiosità: era un modo per esprimere lo spirito della nostra gioventù, inguaribilmente ottimista e desiderosa di compiere qualche impresa anche se magari avventata».
Di questa storia ci eravamo già occupati nel 2020, quando la bicicletta era stata in un certo senso ritrovata durante una salita a Viso da Giovanni Giustetto dopo un periodo in cui non se ne era più parlato. Erano i mesi estivi successivi al primo lockdown dovuto alla pandemia e la storia del telaio era diventata una delle nostre “emozioni”, una rubrica che avevamo avviato nel periodo di confinamento: la vicenda aveva avuto anche una notevole eco, con diversi articoli online, tra cui uno su Piemonte Parchi, e un paio di passaggi sul quotidiano La Stampa.
Va detto inoltre che questa bicicletta, e forse anche una seconda, erano state già oggetto di narrazione in precedenza: ci riferiamo agli articoli “Una bici, Maria, il Monviso” di Edoardo Galliano su Alpidoc, Speciale sul Soccorso alpino del 2003, e “Una bicicletta sul Monviso” di Carlo Degiovanni uscito nel 2015 su “Camminare”.
Nel corso degli anni, il frutto di quella innocente e ingenua bravata giovanile era diventato una presenza familiare per molti alpinisti: beninteso, nessuno la usava come punto di orientamento per la salita dal momento che nel tempo la sua posizione è cambiata più volte sia per l’azione naturale degli agenti atmosferici sia per alcuni spostamenti apportati da diversi alpinisti, ma individuarla era diventata quasi un’attrazione in più sulla via della salita a Viso, o in occasione del rientro a valle. Per alcuni rappresentava ormai un elemento caratteristico del paesaggio del Monviso, pur essendo Berardo stesso il primo a riconoscere che «Il Monviso è montagna per pietre, aquile e camosci, non per vecchie biciclette», come ebbe a dire nel 2020 intervistato da Devis Rosso, giornalista de La Stampa di Cuneo.
In effetti sui sentieri intorno al Monviso e sulle vie di risalita già abbondano materiali abbandonati, che di fatto costituiscono un rifiuto da portare a valle: per contribuire al loro recupero, da qualche anno il Parco del Monviso sostiene e partecipa all’iniziativa CleanAlp della Fondazione European Research Institute, che si impegna a ripulire dai rifiuti i sentieri principali del territorio.
Recentemente, due alpinisti hanno individuato il telaio a 2.900 metri circa, piantato tra le rocce della Est del Monviso: una quota decisamente più bassa rispetto ai 3.500 metri ai quali si trovava nel 2020, come riportato nel nostro primo articolo sul tema. Non senza fatica, i due hanno prima portato in vetta la vecchia bicicletta e poi l’hanno fatta scendere a valle con l’intento di restituirla a Berardo, che sapevano essere colui che l’aveva fatta arrivare in vetta avendolo letto proprio negli articoli usciti negli scorsi anni. In occasione della restituzione, Berardo ha immediatamente riconosciuto il telaio: «Ho fatto i complimenti ai due alpinisti perché il peso e l’ingombro di quel vecchio arnese non sono indifferenti, soprattutto in considerazione dei difficili passaggi da compiere per salire e poi scendere dalla Est: si sono fatti circa 10 ore con un telaio sulla schiena. Due testardi e caparbi come me, insomma».
La montagna che cambia: dalla spensieratezza giovanile alla responsabilità
Qualche giorno dopo la restituzione della vecchia bicicletta, il presidente e il direttore del Parco del Monviso, Marco Dastrù e Vincenzo Maria Molinari, hanno incontrato Berardo per parlare di questa vicenda e per vedere da vicino il famoso cimelio appena recuperato: nell’occasione, i tre hanno parlato di montagna, della sua frequentazione e di come quest’ultima è cambiata nel corso dei settant’anni da cui Berardo è un protagonista delle alte quote. La guida alpina emerita rappresenta infatti un pezzo di storia del Monviso: anche se di sé stesso dice che è originario della collina, ma ama il terreno in pendenza – quasi a sminuire quel che ha fatto negli anni –, è certamente un esempio di come approcciarsi alla montagna e tanti gli sono grati per quello che ha fatto per chi ci vive, lavora o sale per diletto. Lui si schermisce: «Io sono semplicemente un italiano che ha fatto la guida, cercando di fare bene il proprio mestiere e di fare cose per il bene della montagna». Di sicuro, se anche si vuole rinunciare a definirlo un esempio, è un testimone di un rapporto tra esseri umani e vette lungo più di settant’anni e mutato nel corso di questo periodo.
La sua esperienza è iniziata in un’epoca in cui era naturale rivolgersi alla montagna con preparazione, rispetto e soprattutto responsabilità: «Questa parola nella mia vita è sempre stata in cima, lì davanti agli occhi. Sono stato educato alla responsabilità sin da quando ero bambino, da mia Madre», sottolinea con ferma convinzione. «Non ho mai dovuto mettere un cerotto a un cliente: a volte li trattavo anche in modo sbrigativo, altre volte li redarguivo ruvidamente, ma alla fine tutti mi ringraziavano sinceramente per averli fatti salire e fatti scendere senza problemi, accettando anche di fermarsi prima della meta prevista nelle occasioni in cui era necessario per ragioni di sicurezza».
Erano anni che oggi si potrebbero definire eroici e nei quali si usavano materiali che oggi sembrerebbero non solo rudimentali ma anche del tutto privi della necessaria sicurezza: per esempio, non esistevano le imbragature preconfezionate oggi comuni da tempo ed erano invece le corde ad essere usate anche per quello scopo, intrecciate con appositi nodi. La sicurezza dipendeva dalla conoscenza profonda dei luoghi e dei limiti dei materiali: «Io sono ancora vivo perché non mi fidavo delle corde degli altri. Quando scendo nel vuoto voglio sapere tutto della corda a cui sto affidando la mia vita e quella di chi è con me».
L’impegno costante per la sicurezza in montagna di Berardo è riassunto anche dalla sua lunga militanza nel Soccorso Alpino e Speleologico: «Abbiamo cominciato a fare il Soccorso quando il Soccorso sostanzialmente non esisteva», ricorda, raccontando di operazioni che oggi sembrano vere imprese: «Salivamo a piedi, perché non avevamo elicotteri, e non sapevamo in che condizioni si trovasse la persona dispersa: quindi salivamo con l’attrezzatura più ampia e varia che potevamo. Eravamo volontari e con me ho sempre avuto la fortuna di avere persone di grande capacità: ne voglio ricordare almeno tre, che sono Bruno Lisa, Renzo Genovese e Beppe Buffa. Buffa era delegato sempre a chiudere il gruppo di ricerca: sapendolo in coda, ero sicuro che anche nelle condizioni meteo più avverse avrebbe verificato che tutto il gruppo stava proseguendo sulla giusta via».
La montagna, però, era anche teatro di imprese adrenaliniche: una di esse, ricordata da Berardo, coinvolge proprio il già citato Edoardo “Dado” Galliano, che scrisse nel 2003 della bicicletta sul Monviso. Forte alpinista come Berardo e praticamente suo coetaneo, era inevitabile che tra i due si creasse un rapporto di profonda amicizia e di bonaria rivalità: «Abbiamo fatto due volte in un giorno il Visolotto. La seconda, abbiamo deciso di gareggiare e vedere chi sarebbe arrivato primo in vetta». Sugli esiti di quella gara non vogliamo svelare nulla, perché è giusto che a distanza di così tanti anni la palma del vincitore di quella singolare competizione si possa considerare equamente spartita tra i due.
Non bisogna però confondere quelle imprese con lo scarso livello di preparazione di alcuni frequentatori della montagna di oggi, che talvolta camminano su sentieri escursionistici in ciabatte o con attrezzature totalmente inadeguate. Berardo sottolinea l’importanza della formazione e della necessità di aiutare la gente a capire come andare in montagna in sicurezza. Le imprudenze si pagano care e non sempre viene in aiuto la fortuna, che lo stesso “Mente” ammette di avere avuto con sé tante volte.
Un anno di anniversari per il Monviso
Il ritorno della bicicletta dal Monviso coincide simbolicamente con un anno ricco di anniversari per il Re di Pietra. A fine agosto ricorrono infatti i cento anni dalla posa della croce di vetta e a luglio si sono ricordati i cinquanta dalla storica discesa con gli sci della parete Nord da parte di Nino Viale, un’impresa che Berardo ricorda ancora con ammirazione: «Conoscevo bene la Nord, l’avevo fatta tante volte e quando ho saputo che Viale l’aveva discesa con gli sci ai piedi sono andato personalmente a Limone Piemonte per complimentarmi con lui. Un solo errore, in quella discesa e con gli sci di allora, avrebbe portato a una morte certa».
Pochi mesi fa si sono ricordati invece i dieci anni da quando il Parco del Monviso ha coordinato i lavori di rimessa in sicurezza del Buco di Viso e anche su questo luogo iconico, oggi frequentato da circa 40.000 escursionisti all’anno, Berardo ha dei ricordi ben precisi: «C’è stato un periodo in cui non si pensava più tanto a questo tunnel e alla sua transitabilità: tutte le volte che ci passavo toglievo con la picozza un po’ dei detriti che si accumulavano al suo interno, ma sostanzialmente bisognava strisciare per passarci: una volta ho trovato un escursionista che pretendeva di attraversarlo senza togliersi lo zaino dalle spalle, ma figuriamoci! Tribolavo già io che ero 57 chili e lui che aveva la pancia e sarà stato 90 chili non voleva neanche togliersi il sacco dalle spalle…».
Un ultimo aneddoto
La figura di Clemente Berardo trascende la semplice cronaca della bicicletta recuperata. Con più di 400 salite al Monviso alle spalle, l’ultima nel 2019 in solitaria a più di ottant’anni, rappresenta un ponte tra epoche diverse dell’alpinismo e il suo lavoro ha lasciato un segno indelebile sul Monviso. Letteralmente: fu lui a tracciare per primo le tacche gialle sulla via normale per il Monviso, lungo la parete Sud, dopo aver effettuato l’ennesima operazione di soccorso. Quelle tacche, dipinte allora per guidare gli alpinisti non solo in salita ma anche in discesa, fase nella quale è più facile perdere la traccia corretta e rischiare la vita, sono tuttora indispensabili.
A proposito di soccorso, fu sempre Berardo a individuare per primo il punto dove far atterrare l’elicottero al bivacco Boarelli nei pressi dei laghi delle Forciolline, un punto strategico sulla via che conduce alla vetta del Monviso e dunque particolarmente utile anche per avviare operazioni di soccorso o per diventarne base operativa. Nell’ambito delle attività di manutenzione in corso nell’estate del 2025 sulla rete sentieristica del Parco naturale del Monviso, la caratteristica “H” che segnala lo spazio in cui gli elicotteri possono appoggiarsi al terreno è stata ritracciata ed è così tornata a essere nuovamente ben visibile.
Le parole del presidente
«L’incontro con “Mente” Berardo è stato emozionante – commenta Marco Dastrù, presidente del Parco del Monviso – mi sono sentito preso per mano ed accompagnato dentro una storia grande e nobile, quella dell’alpinismo e, in particolare, di quello saluzzese che ha scritto pagine memorabili regalandoci uomini mai dimenticati. Volti e storie che non devono essere abbandonati e che ancora oggi testimoniano un approccio positivo alla montagna, sano e rispettoso. Oggi la montagna è diventata più attrattiva anche nei confronti dei grandi flussi turistici, richiamando spesso anche tanti neofiti. Quell’approccio non è più così scontato: “Mente” ci ha rammentato che dobbiamo continuare a lavorare sulla formazione per trasmettere non solo la passione ma anche l’educazione per salire in montagna in sicurezza».