News del 04/05/2017

Changing climate, changing Parks - n. 3

Seguendo una lezione di Luca Mercalli

3^ pillola: Biodiversity first (ovvero: quali priorità?)

A tutti i motti simil-trumpiani (“America first” è diventato subito “virale” in questa nostra società, assetata di insulsi protagonismi), si può ragionevolmente opporre che, prima di tutto, ci si dovrebbe occupare e preoccupare della perdita di biodiversità. Non lo afferma un manipolo di invasati ambientalisti, ma l’Istituto per la resilienza dell’Università di Stoccolma (http://www.stockholmresilience.org). La resilienza è la capacità di un sistema di adattarsi ai cambiamenti e l’istituto di cui trattasi, nell’evidenziare graficamente i problemi ambientali che più sono “out of control”, mette la perdita di biodiversità al primo posto, seguito dall’alterazione del ciclo dell’azoto e dai cambiamenti climatici. Poi, nell’ordine, vengono l’alterazione del ciclo del fosforo, l’acidificazione degli oceani, deforestazione e cementificazione, sovrasfruttamento dell’acqua dolce, buco nell’ozono (uno dei pochi problemi cui, in questi anni, le società contemporanee hanno “messo una pezza”), il carico di aerosol in atmosfera e l’inquinamento chimico.
La rassegna dei problemi da affrontare, dunque, porta alla ribalta il tema della biodiversità, tanto diffusamente citato, quanto misconosciuto. Due Direttive dell’Unione Europea - la Direttiva “Uccelli” del 1979 e la Direttiva “Habitat” del 1992 – lo trattano seriamente, impegnando gli Stati Membri a lavorare concretamente, proprio per contrastare la perdita di specie, di patrimoni genetici, di ambienti vitali per tutti gli esseri viventi. Sta di fatto che attualmente la Terra perde specie ad un ritmo decine di volte superiore a quello che si registrerebbe in assenza delle alterazioni ambientali prodotte dall’uomo.
“Antropocene” è il termine coniato in ambito scientifico per definire l’epoca geologica, da poco avviata, caratterizzata proprio dai segni indelebili delle modificazioni di origine umana; emblematiche sono le rappresentazioni “fumettistiche” di tale fenomeno, che mettono in evidenza, tra gli strati geologici che i posteri potranno studiare, quello caratterizzato dai depositi di materiali non biodegradabili. Se per 200.000 anni circa Homo sapiens ha lasciato sulla Terra residui per lo più degradabili del proprio passaggio, nella recentissima, infinitesima frazione del tempo geologico che viviamo la “musica” cambia, drasticamente.
Gli studiosi dell’”impronta ecologica” dell’uomo sulla Terra attestano che intorno al 1970 si è registrato per l’ultima volta, a livello globale, un equilibrio sommario tra le risorse naturale utilizzate e la capacità del pianeta di rigenerarle (era il tempo del rapporto sui limiti dello sviluppo – v. pillola n. 2). Da lì in poi il sovrasfruttamento delle risorse naturali ha portato all’attuale consumo medio a livello globale di “una Terra e mezza”, dove la metà in più è sottratta, fin da subito, ai nostri figli e discendenti, ai quali, peraltro, lasciamo anche i problemi connessi con il sovrasfruttamento. Al ritmo attuale, nel 2050, impegneremo tre pianeti per mantenere questo stile di vita (n.b.: l’Italia oggi ne consuma già quasi quattro: evidentemente, come molti altri Paesi “sviluppati”, a carico dei più poveri).
Si tratta quindi di fare delle scelte autenticamente evolutive, e soprattutto a livello politico, per decidere di quale “zavorra” intendiamo liberarci, valorizzando, con tutta l’intelligenza di cui siamo capaci, l’essenziale: diversamente sceglieranno per noi, sempre di più, le impietose leggi della Fisica.

(Massimo Grisoli)

Foto: S. Beccio e R. Ribetto (la Salamandra di Lanza, endemismo delle Alpi Cozie)


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