46 - Una bici, Maria, il Monviso

Edoardo Galliano, classe 1938, è stato uno degli uomini di punta - insieme a Hervé Tranchero, Renzo Genovese, Franco Colombero, Bruno Lisa, Livio Patrile, Clemente Berardo, Giovanni Cornaglia - della "primavera" alpinistica dei saluzzesi. E' stata un'epoca unica e irripetibile, ricca di imprese alpinistiche sia estive sia invernali, rimaste confinate nell'ambito locale per la naturale riservatezza, forse eccessiva, dei loro protagonisti.
Appena ci raggiunge il primo raggio di sole ci sediamo su un comodo masso per qualche sorso di tè bollente. Siamo a luglio del 2003, e il freddo è veramente pungente per la stagione.
Quel maledetto thermos pesa un bel po', troppo se aggiunto a tutto il resto che ho stipato nello zaino. Sono abitudinario, continuo a portare in montagna tante cose che - a ssa pa mai -, potrebbero esser utili. Cerchiamo di alleggerirci almeno dei generi alimentari, prima di affrontare i passaggi sul Torrione St. Robert, che per me ogni anno diventano più ardui.
Le ore di sonno sono state veramente poche, specie per Irma che al mattino patisce in modo particolare il distacco dal caldo e comodo giaciglio... In compenso, però, ci siamo presi la soddisfazione di dormire nello storico ricovero dall'Alpetto, che fu il primo vero rifugio costruito dal Club Alpino Italiano, nel lontano 1866. Esso si affaccia sul bellissimo lago omonimo, sopra Oncino nel vallone del Lenta: uno dei luoghi più suggestivi del gruppo nel Monviso.
Potrà sembrare forse un po' masochistico il voler allungare di oltre un'ora la salita alla vetta del Monviso, già di per sé non certo breve, e rinunciare alle comodità (e alla "mezza pensione") del Quintino Sella. Questo rifugio però in alta stagione ha ormai perso completamente il fascino e l'atmosfera dei bei tempi andati...
Per noi il pernottare in questo luogo già frequentato dai nostri antenati, dai primi conquistatori delle tante vette che ci sovrastano, ha un suo particolare fascino. Ci avviamo ancora a notte fonda. Nel nero assoluto dello specchio d'acqua antistante il rifugio si riflettono, insieme a migliaia di stelle, le luci delle nostre lampade frontali. Irma è raggiante, la giornata si annuncia più che favorevole, finalmente ha l'opportunità di aggiungere alla sua già cospicua collezione di salute anche la cresta est integrale del Monviso. Ne avevamo parlato tante volte in questi ultimi tre quattro anni, durante le molte gite scialpinistiche fatte insieme, forse fin dallo stupendo viaggio in Patagonia, dove casualmente ci eravamo incontrati.
Ora ci stiamo godendo questa innocente complicità, la nostra è una delle scappatelle extra-coniugali (sottolineato: esclusivamente alpinistiche!) che frequentemente ci concediamo, dal momento che i nostri rispettivi moglie e marito di montagne non ne vogliono neanche sentir parlare.
Ancora slegati saliamo veloci, fermandoci ogni tanto per qualche breve sosta che vola in chiacchiere e battute scherzose. Non saprei dire quante decine di volte sono salito su questi appigli un po' consumati, ma questo tratto continua a divertirmi, forse anche a darmi la giusta carica di adrenalina.
A un tratto Irma, che è un'attenta osservatrice, vede, parzialmente incastrato in un'ampia spaccatura, un vecchio telaio di bicicletta, semicorroso dalla ruggine.
Stupita e incredula si chiede cosa ci faccia lì un simile oggetto. Dall'espressione sul mio volto capisce subito che per me quel ritrovamento casuale ha ben altro significato che non la sua semplice curiosità, e che a turbarmi così possono essere solo ricordi poco piacevoli.
Ma in quel momento voglio pensare solo alla cresta est. Anche se per molti è ormai considerata un'ascensione facile, per alcuni addirittura banale, per me resta invece sempre una salita da affrontare con il massimo rispetto e con un buon allenamento alle spalle.
Prometto comunque a Irma che, appena giunti al bivacco Andreotti, al termine delle difficoltà, le racconterò la lontana e triste storia che mi lega a quella bicicletta.

Era il 1962, da pochi mesi avevo accettato, con tutto l'entusiasmo degli anni giovanili, di entrare a far parte del Corpo Nazionale Soccorso Alpino. La nostra Delegazione era nata da pochi anni,
A quell'epoca, nell'ambito del Consiglio direttivo sezionale, mi interessavo delle attività sociali e delle gite. Come ormai tradizione avevamo programmato la salita sociale al nostro "Re di Pietra"; non c'erano state particolari difficoltà a completare il solito pullman da cinquanta posti.
Avevamo passato in allegria al fin troppo breve viaggio a Crissolo, la salita per l'antica mulattiera delle Balze di Cesare e la serata al rifugio. Cosa a quell'epoca inusuale, c'erano nel gruppo alcune ragazze molto simpatiche e carine. Tra queste aveva colpito le mie fantasie una brunetta, Maria, che naturalmente avevo cercato di "tacchinare" fino a sera inoltrata, per la verità senza grande successo. Ma non mi ero dato per sconfitto, con il tempo, chissà...
La mattina seguente, come da programma, il grosso della compagnia si era avviato per la via normale, mentre un gruppetto di giovani originali e buontemponi, al di fuori della gita sociale vera e propria, aveva deciso di realizzare la pazza idea di portare in vetta, per la cresta est, una bicicletta, naturalmente smontata, per fare le tradizionali foto di gruppo con qualcuno in sella. Anche Maria, con mio disappunto, era andata con loro, ma che farci? Il mio "dovere" era seguire la gita sociale.
Promotori di questa originale iniziativa erano stati, con altri, due carissimi amici, Nanni Fornero e Silvio Rabo, che troppo presto ci hanno lasciati e che ricordo sempre con nostalgia.
Tutto era andato per il meglio fino al cosiddetto "passaggio della Est", dove le due vie si uniscono per l'ultimo balzo alla vetta.
Qui avevamo sentito dei richiami di aiuto: era Bruno Lisa, mio abituale compagno di cordata che, trafelato per aver risalito velocissimo la cresta, ci aveva avvertito che Maria, in seguito a una breve e quasi banale caduta, era gravemente ferita, poco sotto il Torrione St. Robert!
Letteralmente di corsa, mi ero messo a seguire come un'ombra Angelo Boero, uno dei migliori e più esperti alpinisti del Saluzzese. Conosceva la via a memoria ed eravamo scesi per la Est a tempo di record.
Era il mio primo e serio intervento di soccorso e, nonostante la fatica e la grande concentrazione, avevo sognato di poter dare il mio piccolo contributo per salvare la nostra amica.
Purtroppo quando eravamo arrivati sul posto, nonostante con il gruppo ci fosse un giovanissimo medica che aveva fatto tutto il possibile, Maria stava chiudendo la sua troppo breve esistenza.


Non riesco a trovare le parole per descrivere la mia rabbia, la profonda delusione, il senso di impotenza che in quei terribili minuti avevano squassato il mio animo.
Non era la prima volta che mi sentivo "tradito" dalle mie amate montagne, purtroppo avevo già incontrato la morte da vicino, ma in quella circostanza, dopo la spensierata giornata precedente, il colpo era stato veramente traumatico per me.
E' Irma a rompere l'imbarazzante silenzio: mi chiede con un filo di voce quale filo diretto colleghi quel telaio arrugginito all'episodio.

La tecnologia odierna, con radio, telefonini, elicotteri specializzati che sono ormai piccole sale di rianimazione, sono lontani anni luce da quel 1962. Oggi quasi certamente la povera Maria si sarebbe potuta salvare.
Allora, in mancanza di meglio, eravamo stati costretti a usare quel telaio a mo' di bastino per caricare quel povero corpo inanimato.
Ed ero stato proprio io, il più leggero e dunque il più adatto per quella operazione, a caricarmi Maria sulle spalle per le numerose calate.


Questo ritorno al passato, questo raffrontarmi ad amici più sfortunati mi porta a formulare i soliti interrogativi. Perché a tanti di loro no e a me sì?
A chi devo tanta fortuna di essere ancora così sfacciatamente in buona salute?
Quanti della mia generazione possono ancora prendersi le mie soddisfazioni?
Chi mi ha "retto il moccolo" in occasione dei pochi ma anche gravi errori e imprudenze che nel corso degli anni mi sono trovato ad affrontare, sia sul lavoro che in montagna?
Al rifugio, seduti davanti ad una meritata birra, propongo alla mia paziente compagna di tutti questi miei dubbi da miscredente. E lei, che è di religione valdese ed è praticante, mi risponde con un disarmante sorriso: "Prova a ringraziare il buon Dio, poi per te potrebbe essere tutto più semplice!". Ci proverò.


Racconto tratto dalla rivista ALPIDOC, n. 52 dicembre 2004.

Ultimo aggiornamento: 20/12/2023 11:33